Le pietre non sono tutte uguali: restano mute, ma raccontano. Il semplice “sasso” conferisce colore a un luogo, regge storie ed edifici, traccia cammini. Quando si entra nella leggenda, però, le pietre possono mettere molta paura, apparire tutto fuorchè stabili e rassicuranti, concretizzare il terrore di presenze minacciose e maligne, fino a sovvertire le comuni leggi fisiche. Suggestione? Ricostruzione sempre più fantasiosa, passata di bocca in bocca, di qualche ora resa difficile e paurosa da motivi contingenti?
Facciamo un passo indietro. Nella nostra zona, facilmente ci imbattiamo in elementi di una tipica pietra grigia, dalla tonalità “morbida”; la ritroviamo in soglie e stipiti nel borgo di Arquata , in portali e stemmi a Gavi, in antiche scale di palazzo a Novi. Proveniente da attività di scavo con ogni probabilità esistenti fin dai tempi dello splendore di Libarna, e continuate fino al ventesimo secolo, questa pietra viene detta “di Montaldero”, oppure “di Pratolungo” o anche “di Lavaggio”.
Le cave, fra alterne fortune, si aprivano infatti in una zona boscosa fra il territorio di Arquata e quello di Gavi, sul primo versante caratterizzata dalla presenza del santuario mariano di Montaldero e sul secondo declinante fino alla frazione gaviese di Pratolungo. Prima di tornare al piano e al pieno sole, però, sbucando da una cupa macchia di vegetazione, si può incontrare un rudere enigmatico. Questa è Lavaggio, cascina dalla facciata grigia sempre più cadente, diroccata casa di tante storie, profilo additato con fare furtivo da chi ne racconta la strana vicenda.
Nel luogo di una vecchia casa di caccia, Lavaggio non ha perso un che di enigmatico, nonostante la natura rigogliosa abbia ripreso sempre più spazio, forzando la chiusura delle sue pietre.
Il luogo è isolato, ma il lavoro dei cavatori e il passaggio di viandanti, un tempo, non dovevano rendere troppo solitario il viverci.
Una fama sinistra, tuttavia, pareva aleggiare sulla grande casa, fino a che qualcuno cominciò a ipotizzare che lassù…”ci si sentisse, ci si vedesse”, insomma, che vi si udissero suoni di natura paranormale e che avvenissero fantasmatiche apparizioni.
Seppur non in maniera continuativa, la cascina veniva abitata ancora nei primi decenni del ‘900. Nessuna famiglia, però, si tratteneva a lungo. Pragmaticamente, possiamo pensare che chiunque, appena possibile, cercasse sistemazioni meno faticose di un casale fra boschi e mulattiere, senza vicini, lontano dall’abitato. Ma tali brevi permanenze fomentarono la leggenda.
Cosa si diceva succedesse, dunque, a Lavaggio? Si mormorava che le pietre facessero strani scherzi. Potevano sollevarsi, restare in aria, o volare da una parte all’altra, materializzarsi in punti imprevisti, perfino tentare di colpire qualche malcapitato, mosse da forza invisibile, mentre un vento infernale soffiava dentro e non fuori dalla casa.
Nella migliore delle ipotesi, il silenzio notturno era spezzato da stridori che non somigliavano a quelli dei rapaci notturni, e parevano provenire dalle pareti. Se tutto volgeva al peggio, con una descrizione della scena degna di Jean Cocteau, si diceva che una forma, dapprima indistinta, si sprigionasse come luce dal muro, per gradualmente assumere forma di braccio, e di mano che reggeva una candela colante eppure incapace di consumarsi.
A Lavaggio, ormai, regna il silenzio, e l’abbandono è tale da far presagire una rapida scomparsa perfino della forma che ancora si stagliava ben riconoscibile dal basso fino ad alcuni anni or sono.
Anche della leggenda resta poco, se non parole come refoli di un vento lontano, per provare un brivido piacevole e familiare, come davanti a un ipotetico camino.
